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Inviato da avatar Nadia Ferrari il 31-03-2024 alle 21:25

Dopo aver partecipato all’incontro tenuto dal prof Mino Conte provo a dare il mio contributo su alcuni degli aspetti che più mi hanno colpito, cercando di mettere l’accento più che sulle cose sulle quali concordo pienamente, sugli aspetti che mi hanno “spiazzato”. Porterò la mia esperienza di insegnante di scuola dell’infanzia rispetto alla ricaduta e ai significati della didattica per competenze, significati che secondo me necessitano di una ridefinizione.

La prima domanda che porterei al dibattito è: noi come docenti quando parliamo genericamente di didattica per competenze a cosa ci riferiamo esattamente?

La mia impressione è che ci siano svariate interpretazioni: a volte mi sembra che ci si riferisca più alle competenze richieste per raggiungere saperi tecnico professionali (riferibili quindi alla acquisizione di un mestiere) e in questo senso mi trovo d’accordo, la formazione scolastica non può e non deve cedere a questo appiattimento. Ma il riferimento a queste abilità tecnico pratiche, a mio avviso, poco ha a che fare con le competenze chiave o meglio alla loro comparsa nei programmi per le scuole del primo ciclo e la scuola dell’infanzia.

Per necessità e chiarezza nei riferimenti dovrei riportare le definizioni delle 8 competenze chiave descritti nei documenti ufficiali (Raccomandazioni europee e Indicazioni nazionali per il curricolo nella scuola dell’infanzia e nelle scuole di primo grado di istruzione) ma allungherebbero troppo il testo, mi sembra però importante per l’approfondimento mettere a disposizione questo link dell’Invalsi https://www.invalsiopen.it/competenze-chiave-apprendimento-permanente/ che a mio parere offre una descrizione dettagliata e complessiva.

La prima cosa che appare evidente, almeno ai miei occhi, è che le competenze non sono divisibili dalle conoscenze, ed anzi, esse si costruiscono su dei curricoli che non escludono il sapere classico e astratto e che basano la conoscenza sui nodi fondanti le varie aree disciplinari. Le competenze anzi li integrano permettendo al sapere di non rimanere frammentato e incapsulato dentro ai confini della disciplina in cui lo si è appreso ma di renderlo attivo e attraverso l’uso del pensiero analogico e la possibilità di creare nessi e ponti semantici trasferibile ai contesti di vita non solo lavorativa.

Ho visto nella mia esperienza di insegnante di scuola dell’infanzia, luogo in cui la costruzione del sapere avviene esclusivamente tramite l’elaborazione dell’esperienza, bambini e bambine non riuscire mai a fare il salto dal “fare al pensare sul fare” e rimanere ingabbiati nella semplice attività. L’esperienza lasciata a sé stessa non genera significati. L’esperienza, per trasformarsi in conoscenza va riletta e rielaborata attraverso i codici simbolico culturali: della lingua, dei numeri (matematica) e delle scienze, della storia e dello spazio topologico e geografico (a partire da quello personale e vissuto dai bambini), reinterpretata nei registri del corpo e dai linguaggi espressivi e artistici ed infine nella relazione con l’alterità (il se e l’altro).

Con il gioco si può matematizzare il mondo, ci insegnava Marco Dallari, certo che si. Si possono imparare le prime regole della matematica per esempio giocando a fare il mestiere del cameriere, certo che si! ma ciò avviene solo se giocando ad apparecchiare una tavola i bambini comprendono che per 8 ospiti ci vorranno 8 piatti, 16 posate e ad ognuno un bicchiere e un tovagliolo (corrispondenze biunivoche). Se proseguiranno il gioco dando senso all’azione attraverso il linguaggio dei numeri e contando e ricontando per controllare che tutto sia in ordine e accorgendosi di cosa manca e degli errori. Infine se disegneranno su un foglio rappresentando la tavola di 8 posti, tot posate, tot bicchieri traducendola in simboli. Ma se tutto questo procedimento che implica: osservare, numerare, classificare, individuare, far corrispondere, rappresentare… (e sono tutte competenze) non avviene, si finisce solo per saper apparecchiare una tavola.

È quindi compito della scuola e dell’insegnante, allestire, oltre ai giochi e ai contenuti, anche quella “palestra” e accompagnare i bambini le bambine ad esercitare le competenze. Forse qui sta la differenza, le competenze non sono qualcosa che deve esibire solo l’alunno, infatti le capacità di osservare, descrivere, classificare ecc. non sono immediatamente misurabili, sono operazioni del pensiero, esse implicano processi complessi che si costruiscono lentamente nel tempo (non sono performance), ma costituiscono l’impianto che deve avere in mente l’insegnante nell’insegnare per monitorare che questi passaggi avvengano. Ed avvengano per tutti. L’idea che le competenze siano una griglia mentale che dovrebbe possedere l’insegnante mentre insegna la propria materia, dovrebbe essere il punto di attenzione anche nei gradi di scuola più alti, per scongiurare il rischio del puro nozionismo culturale che escluderebbe dalla mensa comune della conoscenza proprio gli studenti e le studentesse provenienti da contesti culturali più poveri.

È la parola che fa eguali” ci insegnava Don Milani “che sia ricco o povero conta meno, basta che parli” … e sul saper parlare, oltre a conoscere i contenuti dei testi, è necessario saper esporre organicamente, saper argomentare, farci un ragionamento, saper sostenere le proprie idee e il proprio pensiero, saper ascoltare, saper analizzare criticamente, saper porgere domande… sono tutte competenze.

Le competenze nella loro complessità non mi pare possano essere ridotte solo al problem solving o a strategie di adattamento. Implicano anzi qualità dinamiche, pensiero critico, creatività, capacità di analisi e scelta, decisionalità, iniziativa, creatività… anche se saper risolvere i problemi ed essere sufficientemente flessibili adattandosi ai cambiamenti mi sembrano cose fondamentali per la vita, per la felicità, per il benessere della persona e delle relazioni in generale. Sinceramente non mi sembrano acquisizioni piegate esclusivamente a leggi di mercato.

Inoltre saper capire gli altri, collaborare, partecipare, condividere, rispettare i diversi punti di vista, scegliere, negoziare i significati, avere senso critico, iniziativa e responsabilità, definite come competenze trasversali perché non riconducibili ad un unico asse culturale o a una singola disciplina, mi sembrano competenze necessarie in ogni contesto libero che ponga al centro anche il rispetto della diversità e della differenza. “Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere.” (Evelyn Beatrice Hall). Ti rispetto anche se non condivido mi sembra la regola che permetta un’autentica convivenza democratica.

Chiedo: ma le competenze nel loro quadro complessivo, e i modi di leggere il reale e di essere nel mondo, non sono le capacità che vorremmo possedere proprio per non piegarci in modo passivo e acritico alla realtà, agli altri e all’imperante richiesta di sottomissione al mondo del lavoro regolato solo da interessi economici?

Concludo condividendo appieno il discorso di Mino Conte sulla deriva di cui soffre oggi l’educazione nel mettere al centro il processo di apprendimento degli studenti al posto della relazione tra insegnamento ed apprendimento: due sistemi distinti e differenti, con differenti scopi e vincoli che pure sarebbe interessante approfondire. Trovo che sia stato devastante per la scuola e per l’educazione in generale sostenere che l’individuo apprende da sé e da tutto ciò che incontra (dal suo gatto, dalle montagne, dai tramonti…cosa anche vera) senza distinguere che altro è imparare da un maestro che ti insegna e ha intenzionalità nell’insegnare ciò che una determinata cultura ritiene importante trasmettere per la propria sopravvivenza. E quindi i maestri ti insegnano anche le cose che non fanno parte dei tuoi gusti, alle quali da solo non ti saresti mai avvicinato… permettendo così l’esperienza della resistenza all’insegnamento elemento fondamentale per l’educazione, come spiegato mirabilmente da Mino Conte.

Ma questa deriva spostata sull’apprendimento, a mio parere, non è da imputarsi alle competenze ma è data dal prevalere nel panorama della ricerca psico-pedagogica delle teorie dell’apprendimento di origine sia comportamentista che costruttivista che, se da una parte hanno contribuito a mettere a fuoco i processi epistemologici e i modi di come la nostra mente costruisce la conoscenza e quindi come l’individuo autonomamente, ognuno con uno stile originale, apprende, (mettendo al centro l’apprendente anche per contenere la scuola con al centro la mera trasmissione dei contenuti), dall’altra hanno messo in ombra il significato più profondo dell’imparare qualcosa da qualcuno che in-segna per delle ragioni, che è poi l’oggetto specifico per cui ha senso che esista la scuola. L’uomo, e la chance per la sua evoluzione, è essere docens non sapiens sosteneva Igor Salomone in un suo bellissimo libro di qualche anno fa dal titolo “Il setting pedagogico”.

Son d’accordo anche che sia eccessiva l’enfasi sulla digitalizzazione ma i media culturali sono appunto “media” mezzi… ed il pc o tutti gli altri, esattamente come i libri, sono strumenti nelle mani della pedagogia (questa eterna assente) tocca perciò agli insegnanti governare i processi per il loro utilizzo come media per la costruzione delle conoscenze e non utilizzarli fine a se stessi. Nonostante ciò mi pare in ogni caso oggi improbabile che si possa fare a meno di possedere le competenze tecniche per l’utilizzo dei media virtuali, salvo fare scelte di vita da eremiti.

Ho anche apprezzato l’idea di Teresa Marino sul rinominare la didattica per competenze con la bella espressione di saperi complessi ma torno a chiedere stiamo parlando delle stesse cose? Stiamo parlando delle conoscenze teoriche e curricolari declinate da metodi attivi e laboratoriali? Di una pedagogia capace di tenere assieme le antinomie, le ambivalenze, di procedere per prove ed errori e la possibilità di esplorare i significati? Io credo di sì. In caso contrario i “saperi complessi” andrebbero declinati meglio scendendo nel vivo dei loro contenuti e metodi per comprendere cosa si intende. Senza trascurare il fatto che anche i saperi convenzionalmente codificati e le discipline non sono neutri ma veicolano implicitamente i valori della cultura dominante da cui sono stati creati e in cui sono iscritti.

Infine ciò che più mi ha convinto del discorso di Mino Conte è stata l’idea di impegnarsi nell’opera di traduzione rinominando “parole”, ricostruendo mondi, per far emergere nuovamente dialettiche differenti e sensi molteplici nei modi di interpretare l’educazione, contro l’idea e l’egemonia di un unico pensiero. Fare da spola tra le parole e le cose tessendo la tela (un po’come Penelope) tra il significato e la realtà è un compito che mi è sempre stato caro.

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