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“Il modo più sicuro per assicurarsi la sopravvivenza è diventare il più potente stato del sistema. Quanto più forte è uno stato rispetto ai suoi potenziali rivali, minori saranno le probabilità che uno di questi lo attacchi mettendone repentaglio la sopravvivenza”
La logica del “realismo offensivo” di John J. Mearsheimer prevede che, a differenza di quanto affermato da Francis Fukuyama nel 1992, la Storia dei conflitti nazionali ed imperiali non sia finita con l’affermarsi della democrazia e della globalizzazione liberista dei mercati.
In particolare il liberalismo è quella teoria che, affondando le radici nell'Illuminismo, ritiene che la via maestra per migliorare il mondo passi attraverso l’impiego della ragione, che gli stati evitino le guerre in presenza di ingenti legami economici e che molta fiducia vada riposta nelle istituzioni e diritto internazionali, come argine al divampare di guerre future.
Al contrario il realismo - che ritroviamo già in Sun Tzu, Tucidide e Machiavelli - parte da considerare la natura umana per spiegare il comportamento degli stati, che cercano di accrescere il più possibile la loro quota di potere mondiale, poiché ognuno ha una sete di dominio intrinseca, soddisfacibile solo con l’egemonia.
Per altro la debolezza di diritti ed istituzioni internazionali induce gli stati a competere gli uni con gli altri e a comportarsi in maniera aggressiva, ove l’attenzione è riservata alle grandi potenze, presumendo che quelle più deboli subiscono.
Vige infatti il principio spasmodico dell’autotutela, creando un circolo vizioso, per cui gli stati accrescono sistematicamente la loro capacità bellica, per prevenire le reali o presunte minacce degli altri.
E non vale neanche la distinzione tra armi offensive e difensive, come la storica competizione tra cannone e corazza e quella recente tra missili ed antimissili hanno dimostrato.
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