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Sull'abitudine ad approcciare la tecnologia ci sarebbe molto da dire, a partire dalle recriminazioni sulla nostra crescente dipendenza da certe reti sociali, indotta da biechi imprenditori.
In realtà fino dagli albori della civiltà gli artigiani e poi i progettisti si sono preoccupati del successo dei propri manufatti (hardware) ed anche artefatti (software); successo dipendente da tre fattori d'uso:
- Capacità, in termini di funzioni offerte (dal coltellino svizzero al computer).
- Facilità, intesa oggi come agibilità (affordance).
- Abitudine appunto, indotta dalla combinazione virtuosa dei primi due.
con cui lo sviluppo del disegno industriale, l'affermarsi del prodotto come servizio e le tendenze alla miniaturizzazione e dematerializzazione digitale, ci promettono una tecnologia tendenzialmente invisibile.
Invisibilità strumentale evidenziata già nell'ermeneutica, da Heidegger a Gadamer, come da presentazione allegata, sul rapporto tra calcolatore e conoscenza.
Quindi oggi ogni progettista, sopratutto di reti sociali, sa che l'abitudine fa aggio sulla facilità, la quale fa aggio sulla ricchezza funzionale, per cui concepisce ogni mezzo per avvincere l'utente, a partire dall'ergonomia dell'interfaccia fino a spinte (push) più o meno gentili.
Così come noi utenti, per mera abitudine non ci accorgiamo della complessità di Facebook, mentre arranchiamo se qualche volta ci capita di accedere a questa rete civica, che ospita Filosofia sui Navigli.
Rete civica su cui peraltro si discute anche di ciò, in relazione a "smart citizen per la smart city" ed a "partecipazione e cittadinanza attiva".
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